Il simbolismo del tiro con l’arco e il simbolismo della spada

Ananda Kentish Coomaraswamy

Dopo aver introdotto il lettore al significato primordiale della spada, Ananda Coomaraswamy illustra il simbolismo del tiro con l’arco che si cela ormai dietro l’apparente dimensione sportiva. L’autore intraprende quindi un viaggio che parte dalle corporazioni in Turchia, alle quali si era iniziati solo se in possesso delle necessarie qualificazioni, passa per l’India, e approda in Giappone dove ogni gesto dell’arciere obbedisce a ragioni trascendenti.

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Recensioni de Il Sentiero

Quaderni Asiatici 149 – marzo 2025

Il sentiero che porta alla casa del tè. E altri percorsi tra i giardini del Giappone di Véronique Brindeau, Casadeilibri editore,

pagine 96 illustrato, prezzo euro 21

ISBN-13 – 979-12-80146-15-1

  Con uno stile evocativo e sensibile, Véronique Brindeau ci accompagna in un viaggio affascinante attraverso la cultura giapponese con Il sentiero che porta alla casa del tè. E altri percorsi tra i giardini del Giappone, edito da Casadeilibri nella collana Porte d’Oriente. Questo libro, tradotto con grande cura da Lorenzo Casadei, rappresenta un raffinato omaggio alla filosofia estetica e spirituale dei giardini giapponesi. Arricchito da un ricco apparato iconografico, il libro si apre come un varco su un universo di armonia e contemplazione, offrendo al lettore un’esperienza che coinvolge tanto la vista quanto l’anima. Attraverso quattro saggi intrecciati tra loro in un’armonia narrativa, l’autrice esplora temi come la cerimonia del tè, l’arte del bonsai, i giardini abbandonati e l’integrazione paesaggistica tra natura e architettura sacra. Ogni capitolo diventa una finestra su un universo simbolico, in cui la riflessione e la contemplazione si fondono in un equilibrio perfetto tra poesia e rigore analitico. Il libro si configura così come un percorso di scoperta, in cui ogni pagina invita il lettore a perdersi e ritrovarsi, trasformando le parole in un ponte tra passato e presente, tra ciò che è visibile e ciò che sfugge all’occhio. La scrittura, intrisa di simbolismi e riferimenti culturali, si svela gradualmente, rivelando le molteplici sfumature di una tradizione che affascina da secoli. L’autrice trasporta l’essenza di un mondo in cui gesti semplici, come bere tè, prendersi cura di un bonsai o osservare il mutare delle stagioni, assumono un valore quasi sacro, capace di trasformare l’ordinario in straordinario. In questo viaggio, il lettore è invitato a riconoscere la bellezza nei dettagli più minuti, in quelle piccole attenzioni che, sommate, danno vita a un quadro complesso e vibrante. La meditazione proposta va oltre la semplice contemplazione: diviene uno strumento di conoscenza di sé, un invito a rallentare il ritmo quotidiano per abbracciare la calma e la serenità offerte dalla natura. Così, tra metafore eleganti e immagini evocative, il libro si erge come un manifesto di una filosofia di vita in cui arte, natura e spirito si fondono in un’armonia senza tempo. Il primo saggio, che dà il titolo alla raccolta, è dedicato al roji, il “sentiero di rugiada” che conduce al padiglione del tè. Apparentemente essenziale nella sua composizione, questo percorso è in realtà un microcosmo filosofico ispirato allo zen, un invito a rallentare e a entrare in sintonia con l’essenza delle cose. Brindeau descrive con precisione come ogni elemento, dalle pietre disposte in modo asimmetrico ai muschi, dalle lanterne al silenzio avvolgente, sia concepito per favorire il distacco dal frastuono quotidiano e accompagnare l’ospite verso uno stato di raccoglimento e contemplazione. Un ruolo chiave è rivestito dallotsukubai, il bacile per le abluzioni, che non è solo un oggetto funzionale, ma un simbolo di purificazione fisica e interiore. Il gesto di chinarsi per raccogliere l’acqua diventa un atto di umiltà e rinnovamento spirituale, come suggerisce l’incisione presente su molti tsukubai tradizionali: “Io so soltanto ciò che basta” (吾唯足知), un monito alla semplicità e alla gratitudine. Il roji si suddivide in due parti: il sotoroji, il sentiero esterno che segna il distacco dalla quotidianità, e l’uchiroji, il tratto più intimo, che conduce all’introspezione. Non si tratta solo di una transizione fisica, ma di un percorso simbolico che guida verso una dimensione più profonda dell’essere.

  Il secondo saggio esplora l’arte del bonsai, una pratica in cui natura e creatività si fondono in un dialogo raffinato. Brindeau mostra come il bonsai non sia una semplice pianta in miniatura, ma una rappresentazione simbolica dell’universo, espressione di equilibrio e impermanenza. Centrale è il nebari, l’intreccio delle radici visibili, emblema di stabilità e connessione tra terra e cielo. L’autrice collega quest’arte alla filosofia del mono no aware, la consapevolezza della bellezza effimera, e agli stili neagari e bunjin, che esaltano leggerezza e asimmetria. Ogni bonsai diventa così un microcosmo di cura e contemplazione, dove il tempo e la natura si intrecciano armoniosamente. Nel terzo saggio, Brindeau ci conduce in un giardino abbandonato, un luogo dove muschi e ombre si intrecciano per creare un’atmosfera sospesa tra memoria e trasformazione. Qui, l’abbandono non è segno di trascuratezza, ma un atto di restituzione alla natura, in cui il tempo scorre con un ritmo diverso, più vicino all’essenza stessa del paesaggio. L’autrice esplora il concetto di kage (ombra) e l’estetica del wabi-sabi, che celebra l’imperfezione e l’effimero. Il muschio, simbolo di resilienza, e la luce soffusa che filtra tra le fronde,diventano protagonisti di una narrazione che richiama la fragilità e la bellezza dell’impermanenza. Il libro si conclude con un viaggio nel giardino del tempio Entsu-ji a Kyoto, dove il concetto di shakkei (“paesaggio preso in prestito”) trova la sua massima espressione. Ai margini di un tempio secolare, il Monte Hiei si staglia all’orizzonte, integrato perfettamente nella composizione del giardino. La natura e l’elemento costruito si fondono senza soluzione di continuità, abbattendo ogni barriera tra interno ed esterno, tra visibile e invisibile. Questo raffinato equilibrio invita il visitatore alla contemplazione, suggerendo una continuità tra la bellezza terrena e quella cosmica. Ogni sguardo rivolto alla montagna diventa un atto di comunione con l’universo, un’esperienza in cui il tempo sembra dissolversi in un’armonia senza tempo. Attraverso uno stile poetico e rigoroso, Brindeau offre un’opera che è molto più di una semplice descrizione di giardini: è un invito a riscoprire il valore della lentezza, della contemplazione e della profonda connessione tra uomo e natura.

Il sentiero che porta alla casa del tè.

Il primo saggio, che dà il titolo all’intera raccolta, si concentra sul roji, il “sentiero di rugiada” che collega il mondo esterno al padiglione del tè. Questo spazio, apparentemente semplice, è in realtà un microcosmo che incarna la filosofia zen e il principio di rallentare per entrare in sintonia con l’essenziale. Brindeau descrive come ogni elemento del roji – dalle pietre irregolari ai muschi, dalle lanterne al silenzio che permea il percorso – sia progettato per favorire la transizione dal caos quotidiano alla quiete contemplativa del rito del tè.

Un ruolo centrale è svolto dal tsukubai, il bacino per le abluzioni, che rappresenta un momento di purificazione fisica e simbolica. Il gesto di chinarsi per raccogliere l’acqua diventa un atto di umiltà e di rinascita interiore, incoraggiata dall’incisione, su molti tsukubai tradizionali: “Io so soltanto ciò che basta” (吾唯足知 ), un invito a riflettere sull’essenzialità e sulla capacità di apprezzare ciò che si possiede.

La suddivisione del roji in sotoroji (il sentiero esterno) e uchiroji (il sentiero interno) sottolinea una progressiva transizione sia fisica che spirituale: il primo invita a lasciarsi il mondo alle spalle, mentre il secondo accompagna verso un’introspezione profonda. Questo cammino è permeato dal concetto di Ichigo-Ichie (“un incontro, una volta sola”), che ricorda al lettore la preziosità dell’irripetibilità di ogni esperienza.

Brindeau non si limita a descrivere il roji come uno spazio fisico, ma lo trasforma in una metafora del viaggio interiore verso la consapevolezza e l’armonia, guidando il lettore in una riflessione che unisce estetica, spiritualità e natura.

Le radici: Paesaggio con bonsai

Il secondo saggio si addentra nell’arte del bonsai, un’antica pratica che unisce l’armonia naturale con la creatività umana. Brindeau analizza come il bonsai non sia una semplice pianta miniaturizzata, ma un’intera visione del mondo in miniatura, capace di esprimerne l’essenza attraverso la cura e l’attenzione del bonsai-ka.

L’autrice dedica particolare attenzione al nebari, l’intreccio delle radici visibili alla base dell’albero, simbolo di stabilità e connessione tra il mondo terreno e l’aria. Questo dettaglio, apparentemente tecnico, incarna una profonda riflessione sull’equilibrio tra opposti: forza e fragilità, permanenza e transitorietà.

Brindeau intreccia la narrazione con riferimenti alla pittura monocroma cinese e alla filosofia giapponese del mono no aware, sottolineando come l’arte del bonsai sia un’espressione della bellezza effimera e della sensibilità verso il ciclo vitale della natura. La descrizione degli stili neagari e bunjin, rispettivamente caratterizzati dall’esposizione delle radici e da una semplicità asimmetrica, amplifica l’idea che ogni bonsai racconti una storia unica, radicata nella tradizione ma aperta all’interpretazione personale.

Il giardino dimenticato di Komatsu

Nel terzo saggio, Brindeau esplora un giardino abbandonato, un luogo dove muschi e ombre si intrecciano per creare un microcosmo che riflette il concetto giapponese di kage (ombra) e l’estetica del wabi-sabi. Qui l’abbandono non è percepito come trascuratezza, ma come una restituzione della natura al suo ciclo vitale.

Il muschio, simbolo di resilienza, e l’ombra, con la sua mutevolezza, diventano protagonisti di un dialogo che richiama la fragilità e l’impermanenza della vita. Brindeau arricchisce il saggio con riferimenti culturali, come il teatro Noh di Zeami e il celebre saggio Elogio dell’ombra di Jun’ichirō Tanizaki, che approfondiscono il legame tra estetica, memoria e introspezione.

Questo giardino “dimenticato” si trasforma così in un luogo di meditazione, un rifugio che invita a riflettere sul rapporto tra uomo e natura, tra cura e abbandono.

Sul ciglio dell’Entsu-ji

Il volume si conclude con un viaggio nel giardino del tempio Entsu-ji a Kyoto, dove la filosofia dello shakkei (“paesaggio preso in prestito”) trova la sua massima espressione. Incorporando il MonteHiei all’orizzonte, il giardino dissolve i confini tra spazio naturale e costruito, creando un dialogo tra vicinanza e distanza, tra finito e infinito.

Brindeau esplora come la disposizione degli elementi del giardino inviti alla contemplazione e alla lentezza, trasformandolo in un luogo di connessione spirituale. Seduti ai margini del giardino, con lo sguardo rivolto alla montagna, ci si ritrova immersi in un’esperienza che trascende il quotidiano, riscoprendo l’interconnessione tra tutte le cose.


Il sentiero che porta alla casa del tè è molto più di una semplice raccolta di saggi: è un’opera che invita il lettore a un’esperienza sensoriale, intellettuale e spirituale. Véronique Brindeau, con la sua scrittura poetica e densa di significato, ci guida attraverso giardini che non sono solo luoghi fisici, ma anche metafore di un cammino interiore. Ogni pagina è un invito a rallentare, a osservare il mondo con occhi nuovi e a riflettere sull’essenza della vita.

Grazie alla sua profondità e alla sua bellezza, questo libro si rivolge tanto agli appassionati di cultura giapponese quanto a chiunque cerchi una pausa contemplativa nella frenesia del quotidiano. Un’opera da gustare lentamente, come un rituale, lasciandosi ispirare dal senso di armonia che ne emerge.

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IL SENTIERO

CHE PORTA ALLA CASA DEL TÈ

di Elisabetta Imperato

 

É uscito da poco per Casadeilibri, nella sezione Porte d’Oriente, “Il sentiero che porta alla casa del tè. E altri percorsi tra i giardini del Giappone”, una raccolta di quattro saggi di Véronique Brindeau sulla cerimonia del tè e sull’arte dei giardini giapponesi. Il testo, tradotto da Lorenzo Casadei che ne ha curato l’introduzione, è illustrato da un ricco apparato iconografico che accompagna il lettore in un magico viaggio nei quattro giardini più affascinanti del Paese del Sol Levante. Avevo da poco finito di leggere il bel libro di Pia Pera col titolo tratto dalla poesia della Dickinson “Al giardino ancora non l’ho detto” quando è giunta alla nostra redazione la bozza prossima alla pubblicazione della raccolta “Il sentiero che porta alla casa del tè e altri percorsi tra i giardini del Giappone”, corredata da immagini straordinarie. Nell’introduzione si fa riferimento proprio agli scritti di Pia Pera e in particolare ad una recensione apparsa su Gardenia al Louange des mousses della Brindeau, tradotto da Casadei per la stessa casa editrice.

Il sentiero che porta alla casa del tè inizia con l’immagine di una soglia, una semplice porta di legno appena socchiusa, che divide la casa del tè dal flusso urbano e dai rumori della città. Come in un rito di passaggio, l’autrice ci accompagna attraverso il cammino del tè in una dimensione senza tempo, separata dal mondo urbano. È un sentiero che sembra uscito da un dipinto a inchiostro cinese del periodo Song dell’XI secolo. L’intero percorso è tracciato per agevolare l’approdo nell’interiorità. La meta non è altro che dentro di sé. Ogni tappa del percorso evoca una tensione verso l’altrove. La disposizione irregolare delle pietre predispone il cammino e richiede un’attenzione vigile, un passo giapponese dall’ andamento ritmico e musicale che rallenta il tempo. Si procede in uno spazio verde come in uno stato di sogno che ricorda le immagini che Hillmann, nel suo ultimo libro, definisce la via verde, immanente alla psiche, per salvare la terra dalla catastrofe ecologica. L’impressione che ne deriva è che sia sospeso lo scorrere delle stagioni, in una immersione iniziatica nel colore delle origini, cullati dal canto del vento tra i pini. Il muschio, che ricopre gran parte del cammino, attenua i rumori, e il bacino per le abluzioni, posto rasoterra, richiede il gesto umile dell’accovacciarsi che evoca la sacralità del rituale. Attraverso due sentieri si giunge al padiglione del tè per una cerimonia che ha nella sua essenza la purificazione dei cinque sensi.

Le radici: paesaggio con bonsai dà il titolo alla seconda tappa del percorso. La visione delle radici affioranti dei ficus e delle mangrovie (grandi vene della terra simili a vecchi giganti dai corpi nodosi) richiede uno sguardo verso il basso, gesto che si fa umile e ricorda l’accovacciarsi per accostarsi al bacino per le abluzioni. Da queste radici l’artigiano bonsaista trae ispirazione quando modella un piccolo albero, soprattutto olmi cinesi e alberi dell’ombrello, rispettando i precetti degli antichi pittori raccolti ne Gli insegnamenti della pittura del giardino grande come un granello di senape. Anche in questo caso il rapporto tra la pittura monocroma a china guida la mano del bonsaista celebrando l’unione tra poesia, arte e natura. Lo sguardo del bonsai-ka si dirige “più in basso, sempre più in basso” per scoprire la geometria vivente degli alberi. E le radici si rivelano essere creature di passaggio tra la terra e il cielo, l’oscurità e la luce.

Il giardino dimenticato di Komatsu. È la terza tappa del viaggio iniziatico che ci conduce in un luogo segreto e nascosto dell’isola dove domina il muschio, sposo dell’ombra. Ci incamminiamo in uno spazio-tempo sospeso e distante che sembra precedere l’apparizione dell’uomo sulla terra. L’ombra, ora continua ora discontinua, muta di densità nell’aria immobile, sotto l’effetto della luce filtrante, manifestandosi come sostanza fluida che ancora una volta viene paragonata agli effetti della pittura ad inchiostro a china. Il lettore è immerso in un paesaggio crepuscolare sotto un tetto di nubi. Lo spaesamento che ne deriva ha a che fare con l’oblio e con l’abbandono in cui per lungo tempo il giardino si è ritrovato separato dal mondo.

Sul ciglio dell’Entsu-ji. Nell’ultima tappa del nostro percorso raggiungiamo il primo tempio buddista situato in uno dei giardini più belli a nord est di Kyoto, progettato con intento pittorico per incorniciare il monte Hiei. Si tratta di uno scenario preso in prestito (shakkei), artificio tipico della cultura giapponese con cui il giardino amplia i suoi confini spingendo altrove lo sguardo del visitatore fino a catturare la montagna, inglobando il lontano nel vicino, oltre il gruppo dei cedri. Anche in questo caso, il tratto di cielo che si apre tra i pilastri che sostengono la tenda del tempio, rimanda all’estetica del vuoto dei dipinti a china. La costruzione confonde il senso delle distanze, cosicché si percepiscono cose vicine anche se lontane, cose lontane anche se vicine. Nel suggestivo gioco dello sguardo, uno specchio d’acqua può catturare un pezzo di cielo mentre la lontananza spaziale del monte, al contempo, si fa portatrice di una distanza temporale. La visione ci trasporta lontano, nel luogo di nascita del buddhismo, dove i monaci dal ritorno dalla Cina fondarono il primo monastero all’inizio del IX secolo.

L’attenzione ai dettagli e all’infinitamente piccolo (col muschio si può esprimere tutto, si legge nel libro), l’incontro alchemico tra l’acqua, l’aria e il fuoco, evocato dalla cerimonia del tè, la musica del vento tra le canne di bambù; tutti questi elementi trascinano il lettore in un’atmosfera fiabesca, offrono un rifugio dalla frenesia della città, dirottando l’attenzione, tanto del viaggiatore quanto del lettore, al presente del qui e ora. Ci sono tante ombre in questi giardini come in Perfect days di Wenders. C’è la stessa ritualità presa a prestito dai ritmi della natura. E ci sono tanti mondi dentro lo stesso mondo anche qui, come dice Hirayama alla nipote Niko nel giardino del santuario. Per altra via. Anche nel volume 1 della saga Kill Bill di Quentin Tarantino, quando la leggera porta di legno e carta di riso scorre, si supera una soglia metafisica. Lo scenario cambia e appare un tranquillo giardino d’inverno dove, in un simile spazio simbolico rovesciato, la neve scende leggera e densa nel buio della notte. Il giardino, nel bellissimo libro di Véronique Brindeau, diventa strumento di conoscenza, cammino che porta alla visione dell’essenza, stato di estrema chiarezza, unione perfetta tra corpo e mente che realizza quella armonia alla quale da sempre tendono tutte le arti giapponesi.

RECENSIONI KUNIO

Quaderni Asiatici 149 – marzo 2025

Diego Cucinelli (a cura di), Fiabe e leggende del Giappone. Antologia degli scritti di Yanagita Kunio, CasadeiLibri Editore, Padova, 2024, pagine 253, Euro 21,00. ISBN: 9791280146175

Questo libro ha il grande merito di far conoscere per la prima volta al pubblico italiano alcune opere di Yanagita Kunio (nato Matsuoka Kunio, 1875-1962), il padre degli studi giapponesi moderni sul folklore (minzokugaku). Come ci racconta Chiara Ghidini nella prefazione, Yanagita iniziò la sua carriera come funzionario del Ministero del Commercio e dell’Agricoltura, un lavoro che lo portò a contatto con i contadini e la loro vita. Da qui iniziò il suo interesse per le tradizioni autoctone. Nella sua attività confluirono il desiderio di comprendere e trasmettere i valori autenticamente giapponesi, come avevano fatto i kokugakusha (studiosi delle cose nazionali) del periodo Tokugawa (1603-1867) e quello di progredire nella comprensione di “questioni che possano gettare luce sul passato dell’umanità intera”. In questa seconda direzione lo spinsero inizialmente i suoi interessi letterari, che includevano la letteratura occidentale e gli fecero conoscere l’esistenza del sostrato precristiano della cultura europea attraverso autori come Ibsen e Anatole France.Successivamente, con lo studio sistematico delle fiabe, arrivò inevitabilmente a scoprire temi e motivi ricorrenti in Paesi anche lontanissimi tra loro. “Sebbene non possiamo spiegare con certezza il fenomeno, esso suggerisce l’esistenza di una causa profonda e sconosciuta” scrive Yanagita, e più avanti, tirando le somme sul lavoro suo e dei suoi allievi e colleghi in Giappone: “…forse inconsciamente, abbiamo iniziato a distinguere e interpretare, attraverso l’iniziativa dei nostri studiosi, questioni di grande rilevanza per il passato dell’umanità”.

La ricerca di Yanagita del carattere nazionale giapponese si concentrò quindi sulla cultura orale diffusa nelle campagne e tra le montagne, escludendo la città. Di questa cultura fanno parte sia le fiabe che le leggende. Qual è la differenza tra le due? Nella bella metafora di Yanagita, “le fiabe svolazzano di luogo in luogo: le si può trovare nella stessa forma dovunque si vada. Le leggende, al contrario, mettono radici in un luogo specifico dove crescono stabilmente”. Nelle parole più precise della postfazione di Diego Cucinelli, “mentre le fiabe hanno un incipit in genere privo di coordinate spazio-temporali precise e non entrano nei dettagli onomastici dei protagonisti […], la leggenda […] è connotata da precisi dettagli toponomastici e onomastici, nonché da riferimenti temporali. Le fiabe, infatti, non nascono per indurre le persone a credere al loro contenuto bensì principalmente a intrattenerle, mentre le leggende propongono una presunta verità, ossia intendono illustrare al fruitore l’origine di un determinato fenomeno e la natura dello stesso”. Le leggende tradotte in questo libro sono tre: Le origini del Daishikō, Storie e leggende di pesci con un occhio solo e Divine schermaglie. Il Daishikō era una festività dedicata al monaco Kūkai (774-835), conosciuto dopo la sua morte con il titolo di Kōbō Daishi (Gran Maestro Propagatore della Legge). Esaminando le leggende che parlano di lui, in cui “sembra essersi adirato o rallegrato un po’ troppo” e in cui spesso compare una donna anziana, Yanagita giunge alla conclusione che Daishi non significasse “Gran Maestro”, ma “figlio primogenito/a” (le due parole sono omofone), riferito a un dio bambino, che compare sempre con una donna accanto. Il fraintendimento sarebbe stato creato da persone alfabetizzate che, sentendo la gente di campagna nominare “Daishisama”, pensarono che parlasse di Kōbō Daishi. Per quanto riguarda la donna anziana, “l’uba, la ‘vecchia’, era in origine semplicemente una donna” a cui con il tempo si cominciò a pensare come ad un’anziana. Yanagita conclude: “[…] nelle storie trasmesse in Giappone dal passato si affacciano tuttora un bel po’ di fanciulli belli e vispi, in compagnia di una vecchia”.

Nel secondo saggio Yanagita passa dai pesci agli esseri umani o divini con un occhio solo, per concludere come le creature con questa caratteristica, pur suscitando “sia curiosità sia paura”, siano considerate predilette dalle divinità. Nell’ultimo discute le leggende sulle liti tra divinità, che riflettono a volte anche le rivalità tra fedeli, ma Yanagita ammette che è molto difficile comprendere la causa della nascita di queste leggende, che si perde nel tempo.

Tra i saggi su altri argomenti il più interessante è senz’altro La vita tra i monti, tradotto solo parzialmente data la sua estensione. Vi si discute, tra l’altro, il motivo per cui la divinità della montagna è spesso ritenuta femmina, e si parla della yamauba, o yamanba, e del suo corrispettivo maschile, lo yamachichi o yamajiji (rispettivamente “vecchia della montagna” e “vecchio della montagna”), enfatizzandone la caratteristica di cercare la compagnia umana piuttosto che l’isolamento e la ferocia. Almeno, questa è la caratteristica che viene attribuita a questi due personaggi dalla maggior parte delle testimonianze di chi le avrebbe incontrate, la cui attendibilità come fatti reali è peraltro decostruita dallo studioso.

Le due figure compaiono anche in due delle fiabe raccolte nel volume, Il mandriano e la yamanba e Lo yamajiji che legge il pensiero. Nelle altre fiabe si trovano, tra gli altri, i temi dei matrimoni interspecie, dei “bambini di nascita meravigliosa” e della riconoscenza degli animali verso gli esseri umani.

In conclusione il volume, offrendo una panoramica chiara ed esaustiva del percorso di Yanagita e delle tematiche su cui ha aperto un dibattito che continua tuttora, è un ottimo strumento per chi voglia cominciare ad accostarsi al folklore giapponese anche senza essere uno specialista.

 Irene Starace

 

ALIAS DOMENICA

Motivi sovrannaturali e strane creature negli scritti di Yanagita Kunio

C’era una volta nel Deccan

Mary Frere

C’era una volta nel Deccan

Tre storie popolari del sud dell’India 

della raccolta Old Deccan Days tradotte dal telegu.

Un viaggio alla scoperta del sud dell’India, delle sue tradizioni e culture più antiche. Ancora oggi, le storie raccontate da Anna rappresentano un risorsa preziosa sia per antropologi, linguisti e umanisti, che per gli amanti e appassionati dell’India. Questa piccola selezione di racconti, tradotti per la prima volta in italiano.

 

Mary cover (11 August 1845 – 26 March 1911) soprannominata May, era la maggiore dei cinque figli di Henry Bartle Frere e di Catherine (morta nel 1899), figlia del tenente generale Sir George Arthur.

Il padre di Mary prestò servizio nell’amministrazione coloniale e nel 1862 fu nominato governatore di Bombay. Nel 1868, Frere pubblicò Old Deccan Days che trascrive e riordina i racoonti originariamente tasmessi per via orale che la domestica Anna Liberata de Souza, le aveva raccontato in inglese.

Formato  13,5 x 21 cm.

Pagine  96 illustrato

Prezzo  12

ISBN-13 -979-12-80146-19-9

Il sentiero che porta alla casa del tè e altri percorsi tra i giardini del giappone

 

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Véronique Brindeau l’autrice de L’elogio del muschio e di Hanafufa il gioco dei fiori ci accompagna in quattro perscorsi tra giardini del Giappone.:

Il sentiero che porta alla casa del tè 

Le radici: paesaggio con bonsai

Il giardino dimenticato di Komatsu

Sul ciglio dell’Entsū-ji

 

Il sentiero che porta alla casa del tè – titolo di questa raccolta – è l’immagine perfetta della Via: la prepara e la riassume  […] Il cammino del tè è attenzione e presenza. Passo dopo passo, ad ogni passo si è già alla meta, e i piedi calpestano la Terra pura (jo do), quel regno della grazia che per lo zen si apre nel qui ed ora.  

Anche se rappresenta un pellegrinaggio montano, questo cammino spesso è davvero corto – come brevi sono i quattro scritti qui riuniti – ma è un vero viaggio quello richiesto al visitatore e nel nostro caso al lettore, invitato a imboccare un sentiero che potrebbe portare al di là del tempo e dello spazio.

Recensioni

Formato 17 x 24 cm. 

Pagine  96 illustrato

Prezzo  21

ISBN-13 – 979-12-80146-15-1

Fiabe e leggende del Giappone. Antologia di scritti di Yanagita Kunio

Cover Fiabe Kunio

Un viaggio nel cuore del folklore nipponico: un’antologia con racconti inediti che svela i misteri e le meraviglie della cultura giapponese, attraverso storie di spiriti, demoni e leggende radicate nel profondo della tradizione orale

Yanagita Kunio (1875-1962) è considerato il padre degli studi sul folklore giapponese (minzokugaku) e grazie al suo operato numerose fiabe della tradizione orale hanno per la prima volta trovato forma scritta. Lo stile impiegato da Yanagita, poi, è ricco ma al contempo semplice e costituisce di per sé uno deimotivi del grande successo riscosso dai suoi scritti dentro e fuori il Giappone. Il presente volume intende presentare al lettore italiano un’antologia degli scritti di da Yanagita: una rosa delle più belle fiabe, leggende e altri scritti.Le fiabe: i temi sono vasti e disparati: da storie di bambini di nascita meravigliosa a racconti su demoni, spiriti e altre creature fantastiche. Non mancano poi storie di matrimoni tra specie diverse (umano/non-umano) e di personaggi mitologici. (traduzioni di Diego Cucinelli) Tra gli altri scritti presentati; La vita tra i monti (traduzioni di Ikuko Sagiyama)Le origini del daishikō (traduzione di Francesca Fraccaro)Il corniolo giapponese; Le vacanze in montagna (traduzioni di Noemi Peroni)Storie e leggende di pesci con un occhio solo(traduzione di Isabella Dionisio)

Recensioni

Bushido e il Cristianesimo

Sasamori Takemi, Bushido e il Cristianesimo

Nel suo libro Bushido e Cristianesimo, uscito per la prima volta in Giappone nel 2013, il rev. Sasamori espone la sua visione con riferimenti alla storia e ai miti del Giappone e agli insegnamenti della Bibbia, sullo sfondo della sua personale storia di uomo cresciuto in una famiglia di origini samurai, nell’intento di mostrare dove dottrine apparentemente molto distanti possono convergere e portare nelle nostre esistenze una maggiore pienezza di significato.

bushido–e-cristianesimo-coverISBN  979-12-80146-12-0

Recensioni LA Campana Sommersa e L’Ascensione di Adele

Levante News LA Voce del Tirreno

UNA MISSIONE PER LA GIUNTA CHE VERRÀ

Rapallo: a Roma “tolgono la polvere” dalla targa di Hauptmann, nume dimenticato da 30 anni

Siamo consapevoli che la posterità di Gerhart Hauptmann sia roba difficile da inserire in un programma elettorale, ma anche il sonno ormai trentennale della memoria di questa Premio Nobel – a cui cento anni fa una Rapallo colta e cosmopolita guardava con ammirazione – ha fatto il suo triste tempo. Consigliamo dunque agli aspiranti assessori o incaricati alla cultura di non lasciarsi sfuggire “La campana sommersa e l’ascensione di Hannele”. Da qui, dalla traduzione di due capolavori del teatro simbolista, si può ripartire per diffondere la conoscenza di Hauptmann al pubblico italiano. La riscoperta del drammaturgo tedesco da parte del mercato editoriale nostrano, di cui va dato merito all’Editore romano “CasadeiLibri” e ai curatori Eduardo Ciampi e Inesa Serbayeva, dovrebbe essere una vera e propria notizia nella città che in Hauptmann – parole e musica del giornalista Carlo Linati – aveva il suo “nume indigete”, la sua divinità protettrice.

La targa affissa nel 1995 sul muro del Palazzo di Via Avenaggi che ne ricorda il primo soggiorno, nel 1925, è oggi lettera morta in cerca di un nuovo “perché”; un “perché” che non dovrebbe essere difficile individuare nella sorprendente attualità dell’autore. Scrivono Ciampi e Serbayeva: “Nella cosiddetta era industriale, il rapporto dell’uomo con la natura viene a mutare radicalmente (…) L’idea della sacralità del creato viene completamente annullata e sostituita dal principio dell’io dominante. L’uomo non è più il perno che mantiene e controlla l’equilibrio biologico e spirituale della terra: è un predatore vorace che la assale, la colonizza e la ferisce”

.Ne “La campana sommersa” – fra debiti goethiani e richiami alla tradizione fiabesca dei fratelli Grimm – va in scena il conflitto fra il cristianesimo e il paganesimo, fra il Dio Personale e l’Assoluto simboleggiato dal Sole, fra il Maestro Enrico e il gli esseri soprannaturali disturbati dall’affaccendarsi dell’uomo, un dramma che indica la necessità di una riconciliazione che ancora interroga la nostra weltanschauung. L’autore tedesco ha anche il merito di esplorare terreni fragilissimi e intrisi di emotività – come la morte per suicidio di una bambina, Hannele – offrendo chiavi di lettura che sottraggono la morte alla visione disperata che ne ha l’uomo moderno: “Il bambino, non separando la vita dalla morte, il sogno dalla realtà, si fida dell’esperienza della sua anima, e non della coscienza empirica di veglia”. In Hauptmann la morte – angelo in veste nera – è forte e bella. E’ difficile distinguerla dalla fiaba. “Il bambino, che vive nel mondo della fantasia (…), attraverso la morte, manifestato sotto forma di fiaba, è liberato dall’incessante obbligo dell’essere (…) Hannele diventa figlia del cielo (…), l’ascensione è un’impennata dell’anima, un’eccitazione festosa”.Agli occhi dell’uomo di oggi Hauptmann si muove sul limite della provocazione e del tabù, sfidando sia la moderna visione scientifica della natura sia il terrore della morte che nutre una società arroccata sulla vita biologica come sua unica, possibile dimensione esistenziale. Qui, nella capacità di condurci oltre gli schemi più usurati del nostro tempo, risiede la sua preziosità. La sua riscoperta è allora qualcosa di più di un vezzo intellettuale o di una vanità di provincia. È una missione spirituale che Rapallo, città priva da decenni di una missione sullo scenario culturale italiano, può prendere sulle sue spalle anche in vista della riapertura delle “Clarisse”, a cui un nume indigete non guasterebbe affatto.

Gerhart Hauptmann, La Campana sommersa e Ascensione Hannele

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Gerhart Hauptmann

La Campana sommersa e l’Ascensione di Hannele

Il teatro simbolista del premio Nobel per la letteratura 1912, per la prima volta tradotto e raccolto in un’unica pubblicazione. Due testi tragici di grande spessore drammaturgico, tradotti per poter essere utilizzati in auspicabili nuove rappresentazioni teatrali, o fruiti come letture stimolanti ed edificanti.

Gerhart Hauptmann (1862-1945) si affacciò al mondo della letteratura con opere ispirate al movimento letterario naturalista, del quale, ben presto, divenne il massimo esponente. La sua personalità poliedrica e versatile lo portò a varcare i confini del naturalismo per esplorare, in maniera sempre più ispirata, nuove aree dell’intimismo neo-romantico e del simbolismo.

Sono venuto di corsa e ho i piedi che mi sanguinano; dammi dell’acqua per lavarli.Il sole caldo mi ha riarso; dammi vino da bere in modo che mi rinfreschi.

(L’ascensione di Hannele)

Questi luoghi son belli… Vi è qui come uno strano e sonoro fragore. I pini si scuotono così stranamente e lanciano musiche attraverso i loro rami oscuri; solennemente agitano le cime. La leggenda…, sì la leggenda della selva… Essa ha dei mormorii segreti, attorciglia, divelle e solleva il fogliame, canta tra le erbe dei boschi e…, e vedi, avvolta nella candida nebbia con la sua lunga veste incantata, essa avanza a braccia protese… mi fa segno con la mano… mi è vicina… mi tocca… l’orecchio, la lingua… gli nocchi…

(La Campana sommersa

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